Ho conosciuto personalmente Franco Soldaini poco prima del Natale di due anni fa. Dovevo scrivere un articolo per L’Ordine sulla tradizione del pranzo natalizio nel nostro territorio. Così pensai a lui, che fu gentilissimo, tratto distintivo della sua persona, e mi diede preziose e interessanti informazioni. In seguito ci sentimmo spesso. Quando mi propose di scrivere la parte che riguardava la sua biografia, per un libro articolato e originale, che doveva rispecchiare in modo completo l’avventura della sua vita, accettai con entusiasmo: era per me una sincera dimostrazione di amicizia e di stima. Nacque così “Franco Soldaini. I sapori della mia vita” (NodoLibri) presentato ieri a Villa del Grumello nell’ambito degli eventi di Parolario. Tratto da L’ORDINE del 8/09/2011.
Ci accordammo per trovarci due o tre volte la settimana durante il mese di luglio dell’anno scorso. Mi recavo a casa sua e mi accoglieva sempre con quel garbo e quei modi gentili che facevano di lui una figura un po’al di fuori di questa nostra epoca dove l’educazione viene spesso considerata inutile orpello. Un signore d’altri tempi. Mi sedevo di fronte a lui, sul divano, mentre sua moglie, la Signora Carla (la donna che ha amato intensamente per quarantasette anni) mi chiedeva se volessi qualcosa da bere. Quindi ci mettevamo al lavoro. Franco mi parlava della sua vita, ricca di incontri e di esperienze tali da scrivere un romanzo d’avventura. E non era più un lavoro, per me. Era un momento di evasione, e di emozioni intense che riusciva a farmi vivere, come vedere un bel film che ti coinvolge. Raccontava della sua infanzia a Empoli, delle corse nei campi nelle estati assolate, delle gite in quella splendida culla di arte e cultura che è Firenze quando era adolescente, del gusto per la bellezza e l’eleganza delle forme che suo padre Mario, artista del vetro, gli aveva trasmesso. Mi parlava di “zio Mauro”, amico di famiglia e direttore d’albergo, che gli raccontava delle bellissime città europee in cui aveva lavorato e della sua decisione sin da adolescente di intraprendere la professione di direttore d’albergo. “Una strada difficile, studio e lavoro, lontano sin da ragazzo dalla famiglia” mi diceva “ma ho avuto tante soddisfazioni”. Una volta gli chiesi se aveva mai avuto dubbi, ripensamenti riguardo al suo lavoro. Mi rispose di no, che credeva troppo in quello che faceva, per dubitare. La caparbietà unita ad una grande passione, all’amore per il suo lavoro erano tratti distintivi del suo carattere. Mi raccontava orgoglioso i suoi successi: l’Hotel Grande Bretagne di Bellagio, la Scuola Alberghiera di Villa d’Este e la sua ultima “creatura”, l’Istituto Alberghiero “Gianni Brera”, di cui era direttore attento e sensibile al processo formativo dei suoi studenti. Poi mi parlava dei personaggi straordinari che aveva conosciuto durante gli stages frequentati nei grandi alberghi di varie città europee: artisti eccelsi, come Marc Chagall e René Magritte, attrici famose come Romy Schneider e Liz Taylor; raccontava della sua amicizia con Indro Montanelli, toscano come lui e con Gianni Brera, grande buongustaio, con il quale “setacciava”le migliori trattorie e ristoranti del lago. Mi diceva che si era posto sempre “con semplicità”, senza dover assumere maschere di fronte a personaggi che, solo per la loro fama, potevano essere motivo di soggezione per chiunque. Quella semplicità che è classe innata, garbo, discrezione di persone come Franco, intelligenti e colte; una cultura rielaborata in modo personale e fatta anche di esperienze di vita. Dalle sue parole emergeva sempre entusiasmo e riusciva a trasmettere grande ottimismo. E poi mai una parola negativa per nessuno. Era molto contento di un incarico importante che recentemente gli avevano assegnato presso Alma, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana. Ma non ha potuto assumere quell’incarico. “Mi sono sempre occupato degli altri. Ora toccherà agli altri occuparsi di me”, mi disse con voce pacata il giorno che mi telefonòper comunicarmi che gli era stato diagnosticato il male che lo ha portato via. Eppure mi succede una cosa strana: quando passeggio per la città, mi aspetto, voltato l’angolo di una strada, che mi compaia davanti la sua figura alta e magra “un missoltino”, come lui diceva scherzando, che si toglie garbatamente il cappello, accenna col capo un inchino: “Buongiorno, Laura. Come va?”.