Nero Euridice, la nuova raccolta di poesie di Lorenzo Morandotti, mi ha fatto pensare ancor prima di leggerla al titolo del film di Marcel Camus, Orfeu Negro, che reinterpreta in chiave moderna la figura dei due personaggi del mito. L’aggettivo “nero” dà subito l’idea di assenza di colore e di luce, della dimensione del buio, dell’inconoscibile, di ciò che desta ansia e timore. E un senso di rassegnata inquietudine mi sembra attraversi le cinque sezioni in cui è diviso il libro, che rimandano a loro volta all’idea della complessità della vita, “Respirazioni” e “Cromosoma”, alla sfiducia nei sentimenti più profondi, come nelle poesie della sezione “Giardini del sonno d’amore”, dove è forte il contrasto tra l’idea del rigoglio di fiori e piante e l’indifferenza che paralizza l’amore; ancora una volta un richiamo all’oscurità nella sezione “Ossidiana”, pietra vulcanica di colore nero; alla sezione “Musica per nei”, titolo che mette in relazione, ironicamente, una forma d’arte con malformazioni della pelle. Gran parte delle poesie della raccolta offrono immagini surreali e forti contrasti, partendo sempre e comunque da frammenti di esperienze quotidiane che spalancano abissi dell’inconscio, aprono dimensioni inesplorate dell’animo umano, rivelandone luci e ombre, come recita il verso di una breve, intensa poesia “vedi come al buio risaltano le cose?”. L’idea della vita quale “inconsapevole tiranno”, rimanda al pensiero di Emile Cioran già presente nei folgoranti aforismi pubblicati da Morandotti nel libro di qualche anno fa, Crani e topi. La brevitas è indubbiamente una delle qualità delle poesie di Morandotti: quella capacità di condensare nelle parole immagini potenti e inconsuete, che non possono lasciare il lettore indifferente o esaurirsi in momentanee e superficiali emozioni. È una poesia, quella di Morandotti, che porta inevitabilmente a riflettere sul cono d’ombra che oscura la realtà che ci circonda e rende incerto il cammino della vita: “”violenza dopo violenza sulle cose/ e ora il mondo declina/nell’esatto concetto delle polveri”.
Interessante è notare come molte poesie siano legate alla dimensione del corpo, alla “fisicità”: la parola “carne”, ad esempio, viene ripetuta più volte, legata a un senso di sofferenza e disfacimento: “nel buio della carne”, “Che male hai fatto, povera carne?”, così come il termine “pelle”, “Per la pelle delle gambe/lo appendono di fuori”, “La tua pelle come docile divano” ,“sulla pelle del mondo/il piede non si spezza”, “la pelle crollerà/ al momento del disgelo”; ma molte altre sono le parti del corpo che si trovano nei versi del poeta, le mani, le dita, le unghie, il ventre, gli occhi, la bocca, il volto, le gambe, i piedi, i talloni, le ossa…alcune poesie già nel titolo fanno riferimento alle membra: “”incubo di mano”, “Sgomento da polso”, “In un angolo di mani”, presenti nella sezione “Respirazione”. È come se il poeta volesse indurre il lettore a ricreare il corpo mettendo insieme, appunto, tutte queste parti, per sottolineare come la vita stessa sia un continuo fluire tra “sentire” e “pensare”, tra corpo e mente. Ed è il corpo della donna a cui Morandotti dedica alcuni tra i più bei versi del libro, come nella poesia Il giardino di Laerte: “Il mio paese è un corpo femminile”.
Nelle poesie sono frequenti anche riferimenti a personaggi e miti della classicità, reinterpretati dal poeta in modo assolutamente originale, come per esempio la figura di Penelope nella poesia Barcarola, che sembra riprodurre il ritmo del componimento musicale e al contempo ricercare nella donna amata il desiderio impossibile di una vita protetta dall’amore: “ Prolungo in te l’estate/anche se perdo i frutti”.
Tanti sono i temi che il lettore può trovare in questo libro, così ricco di riferimenti culturali sempre sottesi e mai esibiti in modo ostentato, un libro ricco di spunti di riflessione sulla contemporaneità, sul senso heideggeriano dell’essere “hic et nunc”, perché, come il poeta ci ricorda “Tutto è volontà e limite./ Tutto è/ come saremo all’inizio”.
Laura Garavaglia