ljas Achab, cinque anni, è morto ieri investito da un auto il cui conducente è rimasto senza nome per lunghe, interminabili ore. Poi questa persona si è costituita ai carabinieri: una donna sui quarantacinque anni, una signora come tante, che non guidava certo in modo spericolato. Ho provato pensare cosa può avere provato in quell’orribile istante, che cambierà il corso della sua vita, lasciando aperta una ferita difficilmente rimarginabile. Ho provato a chiedermi “Cosa avrei fatto io, al suo posto?”. Già, cosa avrei fatto? Cerco di immaginarlo, con grande pena. Tratto da L’ORDINE del 11/05/2011.
L’angoscia senza limiti di avvertire l’urto, vedere quel piccolo corpo steso sull’asfalto, immobile, capire che la morte si è impadronita in un attimo di un’ esistenza appena alle soglie del suo cammino, negando a Iljas amore, amicizia, gioia, dolore, illusione e speranza, tutto ciòin cui consiste la vita, strappando in tal modo anche ai suoi genitori una delle ragioni più grandi per cui vivere, ovvero veder crescere un figlio, credo che tutto ciòavrebbe annientato ogni mia capacità di reagire razionalmente. Forse mi sarei sentita, nonostante l’atroce senso di colpa, io stessa vittima della morte. Non fisica, ma dell’anima, sì. Nulla puògiustificare la morte di un bambino. E sempre rimaniamo attoniti davanti ad eventi tragici come questo. Il piccolo giocava in giardino, la palla è sfuggita, è rotolata proprio sulla strada, e in quel momento, mentre la rincorreva, ignaro di ogni pericolo, come tutti i bambini che vivono in quel limbo incantato che non distingue la realtà dalla magia, ecco quell’auto, ecco l’urto. Un racconto al quale avremmo voluto cambiare il finale. Ma non si tratta di un racconto, purtroppo. La vita, tutta, è fatta di inutili, maledette coincidenze, di “se” e di interminabili periodi ipotetici della possibilità. Certo, ripeto, la morte di un bimbo è qualcosa a cui non possiamo trovare risposta e difficilmente si è disposti a perdonare chi la provoca, anche solo per un perverso gioco del destino. Ma io penso a quella donna, al terrore, al panico che ha provato scendendo dalla sua auto e rendendosi conto che non c’era più nulla da fare per il piccolo. Un incubo, sì, avrà pensato di vivere un incubo dal quale forse si sarebbe presto risvegliata. E allora è scappata, lasciandosi alle spalle qualcosa di indistinto, nella mente un’immagine che non poteva essere vera, quella di un bambino senza vita sull’asfalto, la palla rotolata chissà dove, tutto poi confuso dalla nebbia e dall’ottundimento che la paura provoca nella mente. Poi, col passare del tempo, la nebbia si dirada e l’immagine riappare, nitida in tutta la sua atroce realtà. E allora il terrore lascia il posto a un devastante rimorso, a un dolore che non conosce limiti. Non so se quella donna ha figli o meno. Ma ciònon importa. Penso che per una donna, che sa di essere, anche solo in potenza, creatrice, artista dell’opera più grande e bella, la vita, rendersi responsabile della morte di un bambino sia una tragedia vissuta in maniera così intensa da lacerare, dilaniare il cuore. Avrà pensato alla madre del piccolo Iljas. Avrà immaginato il volto di quella donna, senza più lacrime, perchè le lacrime non possono lavare l’immisurabile dolore dell’anima, perchè non c’è dolore più grande, per un genitore, che quello di sopravvivere ad un figlio. E forse proprio per rispetto al dolore della madre di Iljas la donna si è costituita. Niente potrà cancellare il senso di colpa che le rimarrà dentro come un cancro inestirpabile. Ma, riconoscere, tra mille tormenti, la propria responsabilità è un atto dovuto a chi ha perso, con la morte del suo bambino, il senso della vita.