il Premio Nobel per la letteratura 2024 è assegnato alla scrittrice e poeta sudcoreana Han Kang. Una notizia che ha piacevolmente stupito i coreani, sia per la giovane età dell’autrice (è nata nel 1970, la seconda più giovane vincitrice del prestigioso riconoscimento dopo Rudyard Kipling che lo vinse nel 1907 a 41 anni), sia perché, pur apprezzando le indiscusse capacità narrative e poetiche, pensavano semmai ad una vittoria posticipata di qualche anno.
Eppure questo riconoscimento non deve stupire più di tanto: figlia d’arte, dato che il padre Han Sung won è anch’egli scrittore, aveva pubblicato alcune poesie già nel 1993, ha scritto i suo primo e probabilmente più noto romanzo “La vegetariana” nel 2007 e nel 2016 ha vinto il Man Booker International Prize, uno tra i premi letterari più noti e prestigiosi al mondo. Le opere narrative di Hang Kang, che , come sopra accennato, autrice anche di poesie dal respiro profondo che esplorano i sentimenti più intimi espressi in versi ricchi di immagini suggestive e metafore potenti, affrontano temi universali con voce originale e peculiare, passando da rappresentazioni crude e violente della realtà a descrizioni oniriche già presenti nel primo romanzo “La vegetariana”, tradotta in italiano da Milena Zemira Ciccimarra e pubblicata nel 2016 da Adelphi. In quest’opera la scrittrice affronta il tema del corpo femminile che diventa un modo per ribellarsi a canoni sociali, alla violenza fisica e psicologica esercitata sulle donne in una società patriarcale. Una drammatica lotta interiore che porta la protagonista, Yeong-Hye, a decidere autonomamente di sé evitando di mangiare essere viventi e alla fine a non nutrirsi più, fino a deperire e deformare il suo corpo, distaccandosi così progressivamente dalla realtà. È un viaggio doloroso, ai limiti del possibile, dove il distacco dal mondo circostante comporta anche il distacco dalla corporeità, il deperimento progressivo nell’illusione di non fare più parte di un essere umano, ma identificarsi totalmente con un essere vegetale. Un percorso interiore che non ha nulla di mistico, ma che fa riflettere il lettore su quale sia il senso della vita e soprattutto se la morte sia davvero qualcosa di così terribile.
Realtà e immaginazione, si ritrovano anche nel romanzo “Atti umani” (Adelphi, 2016 trad. Milena Zemira Ciccimarra), dove l’autrice narra il massacro compiuto nel maggio 1980 sotto il regime del dittatore Chun Doo-hwan sugli abitanti della città di Gwagju, in particolare sugli studenti. Il talento artistico di Hang Kang vede trascolorare descrizioni di cruda violenza in una dimensione onirica che appartiene alla sfera della poesia, a riflessioni sulla necessità di tutelare degnamente la memoria dei morti attraverso il ricordo di un passato oscuro che tormenta i personaggi del romanzo, che si sostengono a vicenda cercando di ritrovare il senso di appartenenza alla propria comunità. Ogni tragedia individuale si unisce in tal modo in una dimensione corale che trasforma il trauma personale in una dimensione collettiva.
“Convalescenza” è invece un libro che raccoglie due racconti il primo che dà il titolo al volume, li secondo intitolato “Il frutto della mia donna” sono stati pubblicati da Adelphi nel 2019 (trad. Milena Zemira Ciccimarra), ma sono stati scritti dall’autrice prima del suo primo romanzo. Entrambi i racconti si focalizzano sull’intimo travaglio di due donne provocato dalla complessità di legami affettivi con persone a loro vicine; il primo è il dramma della protagonista causato dal rimorso a causa dall’incapacità di instaurare un rapporto con la sorella da cui si è staccata e che non può più recuperare perché è ormai morta. Il secondo è il nucleo originario del romanzo “La vegetariana”, in quanto narra la vicenda di una donna, un’anima inquieta e dolente in cerca di libertà, ma incapace di sfuggire alle convenzioni. Incontrerà un uomo a cui si legherà, che però non riesce a capire il suo dramma interiore e il desiderio di libertà della protagonista si esaudirà solo attraverso una metamorfosi: la trasformazione in un albero.
L’ultimo libro di Han Kang è “L’ora di greco” (Adelphi, 2023, trad. di Lia Iovenitti). È il romanzo dove la liricità dell’autrice raggiunge le vette maggiori: è una storia di una donna che ha perso la parola a causa di una serie di traumi e che cerca di recuperarla perché affascinata dal greco antico, “una lingua dall’autosufficienza estrema, in cui un vocabolo non ha bisogno di combinarsi con nessun altro per essere usato”. Per questo segue un corso tenuto per pochi allievi da un professore che ha quasi perso la vista, tornato a vivere a Seoul dopo anni trascorsi in Germania. L’autrice descrive con grande delicatezza e con una prosa che sconfina nella poesia il rapporto che nasce a poco a poco tra i due personaggi, dove la perdita progressiva della vista e della parola sembrano essere metafore dell’incomunicabilità tra le persone in una metropoli dalle dimensioni di Seoul. La lingua di Platone diventa il filo rosso che unirà alla fine due anime i cui sentimenti restano come sospesi, dove il senso del tatto, lo sfiorarsi reciprocamente il viso con le labbra e le dita diventa l’intima comunione di due anime fino a quel momento chiuse nella reciproca solitudine. In questo romanzo in particolare l’autrice riesce attraverso la vicenda dei due personaggi a far dialogare la cultura orientale con quella occidentale, a fare in modo che la luce perenne del mondo classico illumini il mondo contemporaneo.
Han Kang è la prima autrice a vincere il Nobel per la Letteratura nella Corea del Sud, Paese che sta avanzando a grandi passi non solo nei settori più avanzati della tecnologia (si pensi al gigante Samsung), ma anche già da tempo sta conquistando fasce sempre più ampie della popolazione europea con la cosiddetta “Hallyu”, termine cinese per definire la “Korean wave”, fenomeno culturale che abbraccia cinema, drama, musica e arte culinaria. Ora sarà quasi certamente anche la letteratura ad interessare i lettori occidentali, a far conoscere ad un pubblico sempre più vasto poeti e scrittori coreani fino ad oggi conosciuti solo dagli “addetti ai lavori”.
Laura Garavaglia