“Nella camera dei nostri genitori, in un cassetto tra monili di famiglia e fotografie color seppia, era conservata una vecchia cartella avvolta in carta da pacchi: raccoglieva le lettere scritte nel Lager da nostro padre alla famiglia, insieme a quelle ricevute in risposta. (…) Ora le lettere sono state ordinate, scansite, trascritte e affidate agli Istituti che si occupano degli Internati Militari Italiani. Grazie ad esse e ai racconti a voce, è stato possibile ricostruire i travagli dell’uomo che, insieme a tanti altri uomini ghermiti dalla sventura durante il conflitto mondiale, divenne, contro la sua volontà, un numero. Questa è dunque la storia del prigioniero 28605.”
Il prigioniero 28605 è Natale Schiani, uno degli “Schiavi di Hitler”, cioè dei soldati italiani che dopo l’8 settembre del 1943, se rifiutavano di collaborare, furono internati nei Lager e sfruttati come lavoratoti per alimentare il regime nazista a sostenere lo sforzi bellico. La storia di questo soldato, simbolo delle migliaia che hanno patito le vessazioni e torture dei nazisti, è narrata dai figli Mario e Paolo in un libro che merita tutta l’attenzione dei lettori: “Il fucile dietro la schiena”. Sono, come si evince dal brano tratto dal libro, lettere, cartoline, biglietti riportati in parte integralmente e accompagnati dalla narrazione delle vicende vissute dal padre prigioniero nei Lager, raccontate ai figli fin da quando erano bambini durante le riunioni di famiglia; ricordi di esperienze che appaiono ancora più drammatiche per chi le aveva vissute se confrontate con il benessere del periodo del boom economico e dei decenni successivi. Leggendo i vari capitoli del libro, si ripercorre la storia italiana ed europea dal 1943 al 1945, anno in cui Natale Schiani torna a Luino, dalla sua famiglia. Le lettere scritte ai genitori, non lasciano trapelare le sofferenze patite dal prigioniero: il controllo della posta da parte dei nazisti impedirebbe il loro recapito e inoltre si coglie nell’autore la volontà di non allarmare i propri cari, rassicurandoli sulla sua salute e chiedendo solo di mandargli generi di prima necessità. E quanto coraggio, quanta dignitosa tenerezza traspare dalle righe di questi preziosi documenti! L’importante era resistere alla crudele volontà di annullare “l’essere umano” da parte dei nazisti, ridurre i prigionieri a ombre, contraddistinti, appunto solo da un numero anonimo. Significativa è anche la corrispondenza che Natale tiene con gli ex compagni di prigionia dopo il ritorno a casa: dalle lettere trapela in modo più o meno evidente il desiderio di condividere la gioia di rivedere i propri cari ma anche spesso la delusione di trovare da parte della gente indifferenza se non addirittura sospetto di collaborazionismo coi nazisti. I ricordi dell’esperienza vissuta da Natale nei Lager sono a volte filtrati dall’ironia, che, mascherando, in realtà mette in evidenza con maggior forza il dramma di quegli anni.
Come sottolinea lo storico Walter Barberis[1], “la memoria fornisce delle tracce, indica delle piste investigative. La storia si propone – e dovrebbe – risolvere il caso, identificare i colpevoli, svelarne i moventi, spiegare ciò che è avvenuto, come e perché”. “Il fucile dietro la schiena” è una di queste tracce utili, direi fondamentali a segnalare il percorso della storia; un libro che è un nuovo, importante tassello di quel grande, doloroso mosaico che testimonia un passato indelebile, per poter dire ancora e ancora “mai più” alle future generazioni.
Laura Garavaglia
[1]Frase riportata da Giovanni Tesio nel libro “Nel buco nero di Auschwitz”, Interlinea, 2021, pag. 20