“Scarnifico parole fino all’osso” nota di lettura di Piera Mattei
La vita replica le sue forme anche in individui in cui la somiglianza non discende per successive generazioni della stessa specie. Così le volute del nostro cervello, la simmetria che lì si replica come nelle altre parti del corpo umano, curiosamente somiglia alla simmetria del gheriglio.
La vita replica le sue forme anche in individui in cui la
somiglianza non discende per successive generazioni della stessa specie. Così
le volute del nostro cervello, la simmetria che lì si replica come nelle altre
parti del corpo umano, curiosamente somiglia alla simmetria del gheriglio.
Quindi, nel libro che porta appunto questo nome, del cervello anzitutto stiamo parlando, dell’organo dove risiede il carattere, la
particolare forza di ogni umano individuo, la capacità di comprendere e
scegliere. La sua “anima”?
Cellule stellate,
ippocampi, talami, / madre dura e pia.
Non è fiaba, / non è poesia il cervello. Eppure / siamo tutto lì, una matassa /
viscida e grigia che ci imprigiona / nella calotta del cranio.
Ho letto e riletto questo libro di Laura Garavaglia, così
come richiede ogni opera di poesia che offre sulla pagina la sua sostanza, la
sua giustificazione, e “si offre” nello stesso tempo, indifesa alle
interpretazioni del lettore. Per me questo libro, che certamente è di poesia,
si è infine rivelato anche come un romanzo.
Nella prima sezione trovo chiaramente narrata, sebbene con
un pudore che confina con l’ammutolimento,
una vicenda di nascita e di morte. Cosa significhi, dal punto di vista
dei sensi, della violenza sul corpo
della madre, la generazione, il parto,
l’atto insieme violento e naturale di dare alla luce:
Qualcosa di vischioso,
compatto tende all’estremo muscoli e dolore. / Poi liquido che cola tra le
gambe, sangue che imbratta le lenzuola. / Viscido e caldo, il mistero di sempre
a generare amore. / La vita inizia dove il sogno muore.
L’ultimo verso di questa poesia conduce direttamente alla successiva. Perché l’anomalia,
l’impazzimento dei cromosomi,
l’eccezione sono contemplati nell’ordine naturale del vivente, ma
saperlo, comprenderlo, non riesce a placare la sofferenza: Anomalie genetiche / diceva nel suo camice bianco / le solite eccezioni
a conferma / cromosomi impazziti. / Ma la somma, il calcolo che non torna / gli
sputa addosso tutto il suo dolore.
Forse appartiene a un’altra storia, ma nel romanzo di questo
libro di poesia c’è poi l’evento di un tragico volo. L’idea del gioco (Era stato come un gioco) riporta
immediatamente all’ovidiano mito di Icaro: puer
audaci coepit gaudere volatu (il fanciullo prese a entusiasmarsi del volo, Metamorfosi
VII, 223). Il corpo sembra volteggiare e godere nell’infrangere la legge di
gravità, ma sta precipitando dall’alto e lo sguardo lo segue nella tragica
traiettoria, come in un sogno, nella
folle speranza che possa, come fanno gli uccelli, invertire la sua rotta: Era come se la figura dovesse rialzarsi in
volo / come fanno le rondini e i vecchi
/ dicono che pioverà.
Come un sogno, dicevo,
e infatti questa prima sezione così s’intitola: La vita e il sogno. Forse
solo di un sogno si è trattato, uno di quei sogni che lasciano un peso sull’anima. Le poesie di questa
sezione respirano angoscia ma insieme indicano una necessaria soluzione, almeno
mentale – lì nella fatica del cervello –
al dolore: Raccolgo il mozzicone
del giorno / scarnifico parole fino all’osso, / succhio il midollo, finché
posso.
Le parole, la mente. Una soluzione sembra affacciarsi non nella
sezione immediatamente successiva del libro che infatti ha il titolo Vacanza breve, sorta di evasione, di deviazione dal compito di dare un senso
accettabile alla vita, ma nelle due sezioni finali Le forze deboli e Nel cono
d’ombra. La strada che la mente puòintraprendere è antica e nuovissima a
un tempo. Già Lucrezio e gli Epicurei l’additavano, e oggi,
più che mai, nella sua evoluzione, è spalancata, invitante. Perché la
leopardiana “infinita vanità del tutto” si converte nel suo
contrario: la serena certezza che ogni consolazione al di fuori della nuda
conoscenza, è inganno. L’atteggiamento oscilla tra un’arresa rassegnazione e la
positiva scelta di collocare la propria individuale vicenda nella generale
realtà e descrizione del cosmo, di aderire a una visione scientifica della
realtà:… Vorrei / addormentarmi, affidare / al linguaggio dei
numeri la vita;
Mi arrendo alla
potenza del continuo;
Ma anche, più assertivamente:
Amo la scienza che non
lascia / spazio all’inganno del tempo/ della fede e del sogno. / La mela
matura, marcisce. / Ma l’atomo resta, ritorna / il silenzio del cosmo.
L’espressione che ho più avanti citato, “scarnifico
parole fino all’osso”, è un sintetico manifesto di questa poesia che
riesce a dire molto, limitando e limando
i suoi mezzi, fin quasi, direi, a
imitare la struttura delle formule matematiche. Ma quel verbo, quasi feroce,
dice anche che non tace, non sempre sono messi a tacere, la sensibilità, l’emotività, il mondo
visibile di carne e sangue. La poesia non volteggia, non si pone in
contemplazioni estatiche, si aggira seria e, come può, consolatoria,
tra gli elettroni che danzano da
un’orbita all’altra, eludendo il
principio di casualità. La volontà di vedere gli eventi con sguardo
oggettivo-scientifico, di usare a questo scopo la parte razionale del
cervello-gheriglio, si propone come esito pacificatore, proprio lì dove
s’appunta il vertice della sofferenza,
soprattutto della sofferenza psichica. E ricordo e cito, cosa scriveva
Lucrezio già più di duemila anni fa: Ognuno
cerca di fuggire da se stesso ma, per lo
più incapace – come si vede – di sfuggirvi, resta suo malgrado attaccato a quel
se stesso che detesta, perché malato,
non afferra la causa del proprio male. Se la vedesse bene, lasciando
ogni altro oggetto, ognuno si applicherebbe, innanzitutto, a studiare la natura
delle cose (De rerum natura III 1068-1072). Uno studio difficile, una
poesia mai facile, e che si propone un fine insieme etico ed estetico.