Se non fosse per il freddo tagliente di questi giorni, sembrerebbe di essere a Marrakesh, Otavalo, Canton . O in tutte queste città nello stesso momento. E può darsi che , durante la bella stagione, quando il sole e il caldo possono ricreare il clima non certo polare di quei luoghi, la suggestione sia ancora più forte. Mi riferisco al crogiolo di razze, al melting pot locale che subito si coglie curiosando tra le bancarelle del mercato di Como; si snoda come un dragone del capodanno cinese (tanto per restare in tema) per un lungo tratto lungo il perimetro delle vecchie mura della città. Tratto da L’ORDINE del 17/12/2009
Mi è sempre piaciuto, viaggiando, visitare i mercati tipici di ogni paese: penso –oltre a quelli delle città sopra citate, esempi significativi – al mercato di Chicicastenango , in Guatemala, un arcobaleno di stoffe, tappeti, oggetti artigianali, come in un grande dipinto naïf; o a quello – fuori da ogni itinerario turistico – all’ estrema periferia di Livingstone, Zambia. Vestiti colorati, scarpe usate, verdura e frutta, spezie, animali macellati, vecchie biciclette, moto, macchine da cucire riciclate. I neri locali che ti guardano chiedendosi – interpreto il loro pensiero con la parafrasi del titolo di una famosa raccolta di saggi e racconti di viaggi di Bruce Chatwin- “Che ci fai tu qui?”. I mercati sono realtà che ti permettono di conoscere – sia pure da semplice turista – qualcosa di più riguardo all’identità culturale del paese che stai visitando. Quello della nostra città si è invece trasformato in una sorta di Babele d’Occidente. Sento parlare tanti idiomi diversi: lingue slave, arabo, cinese, spagnolo, portoghese, dialetti africani. Mi guardo attorno ed ogni bancarella è un microcosmo etnico. Peròla merce non è costituita da oggetti artigianali caratteristici, ma da prodotti indistinti del mercato globale. Tanti sono i cinesi: vendono soprattutto abbigliamento, con cortesia e discrezione tutta orientale. Sorriso stereotipato sulle labbra, ti chiedono “Posso essele utile?” con l’ormai proverbiale sostituzione della “erre” con la “elle”. E ti sciorinano davanti agli occhi un campionario illimitato di maglioni, gonne, pantaloni, abiti, camicette, ecc. di tutti i colori e taglie. C’è una donna, occhi che paiono due fessure nere e zigomi sporgenti, che vende cardigan ricamati con perline variopinte. La sua bancarella è la più gettonata dalle signore: “Dov’è mio marito? Ho bisogno dei soldi!” grida un’attempata matrona stringendo un maglione viola, probabile taglia XL, a ricami iridescenti. Non riesco ad avvicinarmi più di tanto al banco: è un turbinare di braccia e di mani che freneticamente rovistano tra buste di plastica, capi colorati, varie misure alla ricerca di ciòche puòessere “il meglio”. L’ineffabile commerciante non si scompone, lascia fare; poi, quando le acquirenti hanno deciso, con sguardo impenetrabile impacchetta, incassa i soldi, dà resti, saluta e cerca di rimettere inutilmente ordine sul banco. La bancarella di fronte è di un giovane dalla carnagione olivastra, barba incolta, che si dà un gran da fare a magnificare la sua merce: come da miglior tradizione dei mercanti arabi. Il tono della voce sovrasta quello dei colleghi vicini, sta cercando di convincere un’anziana signora a comprare un buffo cappello di lana nera costellato da piccoli pompon colorati. “ Compralo, signora, stai bene, sai?” la incalza sorridendo, porgendole uno specchio. “Ma… non so…è troppo giovanile…” accenna timidamente la vecchietta. Ma non fa in tempo ad aggiungere altro: si ritrova, al posto dei dieci euro che aveva in mano, l’originale cappellino. Il giovanotto, intanto, sta già contrattando con un altro cliente. C’è un’altra bancarella che attira la mia attenzione. E’ gestita da una donna velata, viso ovale e grandi occhi scuri. Vende biancheria intima, pigiami e camicie da notte, vestaglie, da uomo, donna, bambino. Due giovani mamme , anch’esse indossano il hijab,spingono i rispettivi passeggini e sono attorniate da una nidiata di bambini. Si fermano, parlano in arabo e ridono tra loro, ammiccano, indicando capi un po’osé. Chissà cosa si stanno dicendo. Poi cominciano a rovistare e scelgono delle tute per i piccoli. Una signora con accento spagnolo, capelli lisci e viso con tratti indi, mi chiede di farla passare, ha fretta. Trascina per mano un ragazzino , capelli a spazzola e sguardo da furbetto. Dove andrà così di corsa? La ritrovo qualche bancarella dopo, dove sono in vendita calzature, mentre cerca a tutti i costi di convincere il figlio a calzare un paio di stivali da pioggia di un improbabile colore blu elettrico. Lui, giustamente, non ne vuole sapere “Quiero éstas!”, protesta indicandone altri, molto più sobri. Il commerciante (un italiano! Sono sempre meno, qui) cerca di convincere la donna : “Signora, lo accontenti! E poi, per un maschio, sono più adatti questi” e guarda con complicità il ragazzino che lo ricambia con un sorriso. Alla fine, la donna, brontolando qualcosa i spagnolo, cede. “Vai a capire certe madri!” esclama tra sé il venditore scuotendo la testa, mentre i due si allontanano. Percorro qualche decina di metri: molte bancarelle vendono prodotti per la casa, cosmetici e profumi, come nei bazar, merceria, pentole e casalinghi di ogni genere. Un banco è affollatissimo: un giovane sudamericano vende bigiotteria, pietre dure montate su collane, orecchini, bracciali argentati. Donne più e meno giovani curiosano alla ricerca di monili d’effetto a prezzi contenuti. “Non c’è un bracciale come questo, ma con le pietre viola?”chiede una ragazza bionda. “Io prendo questo anello. Puòfarmi un pacchetto regalo?” le fa eco un’altra signora. Il ragazzo, con cordialità tutta latinoamericana, dà retta a tutte, dispensando complimenti per far leva sulla vanità femminile e convincere all’acquisto. Mi fermo davanti ad una bancarella, gestita da una coppia di senegalesi. Vendono oggetti di pelle, borse, portafogli, cinture e guanti. Lei, capelli raccolti in mille treccine, sorride ai potenziali clienti mostrando denti bianchissimi. Il marito (credo) ha il fisico da giocatore di rugby. Scelgo un paio di guanti marroni. Ne ho proprio bisogno, ho le mani rosse e intirizzite dal freddo. Accanto a me due donne stanno guardando delle borse. Sono rumene o moldave, almeno mi pare, da come parlano tra loro. Poi si rivolgono in italiano all’ambulante senegalese che,sempre in italiano, elenca modelli e prezzi.. La nostra lingua, penso, è il filo rosso che lega tra loro persone con tradizioni, abitudini, culture tanto diverse. Per un momento chiudo gli occhi. Respiro l’aria pungente dell’inverno lariano in cui si mescolano gli odori forti dei polli arrosto e delle patatine fritte, provenienti dal furgone -i proprietari sono “laghéé d.o.c.” – che sosta davanti a Porta Torre, e quelli del kebab – tutto mediorientale – preparato in un chiosco poco più avanti. Riapro gli occhi e vedo due ragazzine velate che comprano patatine dall’ambulate lezzenese, mentre al chiosco studenti italiani scherzano fra loro addentando il caratteristico pane arabo imbottito di carne e verdure. Poi noto che si conoscono, perché si salutano con l’irruenza tipica dell’adolescenza. A pensarci bene, senza voler fare del sociologismo spicciolo, o cedere a superficiale buonismo, sono contenta: le nuove generazioni sembra non colgano contrasti, differenze, varietà che io, ormai lontana diversi lustri dalla loro età, non riesco a fare a meno di notare. E va bene che sia così a partire da piccoli, in apparenza banali gesti quotidiani. Come gustare patatine o kebab al mercato, appunto.