I veri viaggiatori sono soltanto coloro che partono per partire, col cuore lieve, simile a un pallone; non si separano mai dal loro destino e, senza sapere perché, dicono sempre: Andiamo!”
Questa frase di Baudelaire, tratta da “Le voyage” ne “I fiori del male” sintetizza in modo illuminante lo spirito del viaggiatore, disposto a percorrere nuove strade per raggiungere altre mete, sempre più lontane, animato da una irrefrenabile volontà di conoscere, capire, scoprire, irrequietezza che è tutt’uno col cuore e con la mente; l’avventura del viaggio come metafora della dinamicità della vita, necessità di accettare e comprendere il mutamento di luoghi, corpo, anima; contrapposta ad una staticità fatta di routine quotidiana, ritmi imposti dalla vita delle metropoli, esistenze intrappolate in pulviscolari solitudini che spesso portano l’individuo a viaggiare in modo malato, distorto attraverso droghe e alcol. Tratto da L’ORDINE del 5/12/2009
Come asseriva Bruce Chatwin, “I viaggi reali sono più efficaci, economici e istruttivi di quelli fittizi”. Paesaggi e persone ti entrano nell’anima, si fissano nella memoria immagini, istantanee che non si cancellano più. E il diverso, il lontano, lo straniero, l’ignoto non sono più entità sconosciute e temibili, ma realtà da scoprire e con le quali confrontarsi, motivo di arricchimento interiore. Sono convinta, come asseriva John Steinbeck, che non siano le persone a fare i viaggi, ma i viaggi a fare le persone. E’ un bagaglio di esperienze che ti porti dentro, un patrimonio fatto di luoghi volti, voci,odori, sapori che nessuno mai ti potrà rubare. E’, in un certo senso, conservare la testimonianza di popoli lontani e diversi , malgrado l’ineluttabile processo di globalizzazione. Ho dei ricordi intensi di alcun viaggi che ho avuto la fortuna di intraprendere: le dune surreali, dai riflessi ramati del deserto di Sossuvlei, in Namibia, che si stagliano contro un cielo dalla luce mistica; le torbiere infinite della Terra del Fuoco; i contrasti estremi tra due elementi naturali, ghiaccio e fuoco, che caratterizzano il paesaggio islandese; i bambini dell’isola di Santiago, nell’arcipelago di CapoVerde, la pelle color ambra, grandi occhi di cerbiatto, giocare spensierati tra i liquami delle baracche e i maiali; la solennità ancestrale dei riti funebri del popolo Toraja, a Sulawesi, Indonesia. E potrei rievocare tante altre immagini che ho scolpite in modo nitido nella mente. Come me, molti amici e conoscenti comaschi amano l’avventura del viaggio. Soprattutto tra i giovani c’è questo desiderio di cercare nuovi orizzonti, di allargare il senso di scoperta che accompagna il viaggiare. Margherita Errante, trentatreenne canturina, è una di loro. Sinologa, appassionata d antropologia culturale, interprete e traduttrice di varie lingue, vive tra Como e la Cina, dove insegna francese e inglese presso università statali e collabora con il dipartimento del Ministero degli Affari Esteri locale curando le relazioni internazionali. Nel suo cognome, segno del destino, è racchiusa una passione che sin dall’adolescenza l’ha spinta a percorrere migliaia di chilometri in Europa, Africa, Estremo Oriente. Viaggiare è per lei ragione di vita. Nel 2004 ha trascorso circa otto mesi al confine sino-birmano, tra la minoranza etnica cinese Wa, nell’ambito di un progetto per un dottorato di ricerca. Un’esperienza unica, che ci rimanda un’immagine della Cina ben diversa da quella che oggi abbiamo in Occidente, “la più grande economia di mercato esistente al mondo, una moderna superpotenza in ascesa nell’era di Internet e della globalizzazione”, come scrive Federico Rampini nel saggio edito da Mondadori “L’ombra di Mao”. Gli Wa , delle 56 minoranze etniche di un paese che per vastità è paragonabile ad un continente, sono forse l’unica oggi sopravvissuta al processo di sinizzazione. Cacciatori animisti provenienti dal nord della Thailandia, vivono in villaggi nascosti in una giungla quasi impenetrabile,ed hanno abbandonato il nomadismo per praticare oggi un’agricoltura di sussistenza in un territorio montuoso, impervio, di difficile accesso. Per questa ragione e per loro fama di tagliatori di teste (pare che questo rito propiziatorio sia ancora in uso tra alcune comunità isolate nella giungla birmana) solo da qualche anno la regione in cui vivono è stata aperta al turismo, in prevalenza cinese, come spiega Errante nel suo diario di viaggio, intitolato a questa singolare popolazione. E’ una società patriarcale, ma una certa libertà sessuale è necessaria alla procreazione e quindi alla sopravvivenza: ogni donna puòavere fino a dieci uomini. Per raggiungere il popolo Wa, l’intraprendente comasca ha attraversato le regioni del Guizhou e dello Yunnan, migliaia di chilometri percorsi in treno, dividendo il vagone letto con una giovane “vestita come una qualunque ragazzina emancipata della Cina del sud”, ma “con il trucco volgare, un po’ troppo acceso per un’adolescente” che scoprirà, lungo il viaggio, essere una prostituta. Decine di ore trascorse ad attraversare la giungla su autobus scassati e affollati all’inverosimile, carichi di bagagli e cianfrusaglie, guardata con curiosità dagli abitanti del luogo. Soste di giorni aspettando improbabili coincidenze in villaggi sperduti dove gli abitanti non le rivolgono la parola, ignorandola e servendole riso e verdure saltate in assoluto silenzio. Poi, finalmente, la meta: un insediamento Wa dove l’accoglienza è calorosa. Danze attorno al fuoco, corpi asciutti e lunghi capelli neri che piroettano e si agitano al ritmo di tamburi e gong, dolci canti che si diffondono nella foresta ,il capo villaggio che le offre grappa in segno di amicizia. E durante i mesi trascorsi in quest’angolo sperduto, lontano anni luce dal miracolo economico cinese, dove si puòscambiare il chiarore di una lucciola per un aereo, Margherita Errante raccoglie le testimonianze della gente. Degli anziani, soprattutto, che le raccontano di quando la loro valle era foresta, meno di un secolo fa, abitata da scimmie e da tigri e gli Wa cacciavano completamente nudi, offrendo le teste tagliate al Dio dei Campi, Muyiji. Le narrano, come in una fiaba, degli spiriti che animano le gocce di pioggia che stillano dai tetti di paglia delle capanne, disegnano sulla terra figure di animali che non esistono più, parlano di leggende, fantasmi, superstizioni. Uno stile di vita che loro – pur così lontani dal cosiddetto progresso che avanza, inesorabile, spazzando via usi, costumi , tradizioni e con essi memoria e identità di un popolo – sembrano già rimpiangere prima ancora d’averlo perso. E l’antropologa comasca, durante questo straordinario viaggio e il soggiorno in un mondo fuori dal tempo, ha promesso di conservare per loro il “sogno di tremila anni di storia” che il popolo Wa è cosciente di dover inesorabilmente abbandonare.