Ci sono incontri che solcano in modo profondo il cammino della nostra esistenza: è come se assorbissimo parte delle esperienze di vita di queste persone speciali che il destino ha posto lungo la nostra strada. Diventano parte di noi.Questo essere “singoli di molti”, per usare una felice espressione del poeta Giancarlo Majorino, mi sembra emerga nell’ultimo libro scritto da Gabriella Baracchi, “Nessuno da baciare” ( NodoLibri, 2011), scrittrice comasca che ha esordito all’inizio degli anni ‘90 con il fortunato romanzo autobiografico, “Il vestito di sacco”. Tratto da L’ORDINE del 02/08/2011.
In questo suo ultimo breve romanzo, quasi un racconto, l’autrice ci riporta indietro nel tempo, agli anni in cui, bambina, fu affidata all’Istituto Santa Maria di Lora dove conobbe suor Elvezia, figura di donna che la accompagnerà durante lunga parte della sua vita, fino alla piena maturità.L’autrice dipana la matassa a volte aggrovigliata dei ricordi, li riporta alla luce dall’oscurità del tempo, dal fluire indistinti nella memoria, liquida, scolorita. E in questo modo ci offre un convincente e sincero racconto di esperienze di vita vissuta che ruotano attorno alla figura di Elvezia, la suora che, nei suoi ricordi di bambina, “parlava poco, non sorrideva quasi mai, e spesso aveva la faccia stanca e preoccupata, negli occhi l’ombra di un cruccio”.Amava e si prendeva cura delle bambine a lei affidate, e aiutòla Baracchi a realizzare il grande desiderio che aveva sin da piccola, durante gli anni magri e difficili del dopoguerra: quello di poter studiare.Il ricordo della suora, figura dall’autrice idealizzata quando era bambina, la accompagnerà sempre. Ma cambierà, nello scorrere del tempo, il rapporto tra le due donne. “L’Elvezia”, come affettuosamente viene chiamata nel romanzo, lascerà il convento, e a poco a poco in lei maturerà un desiderio, confessato solo in tarda età, di vivere la vita intensamente e un grande bisogno di tenerezza e d’amore.I sentimenti della Baracchi nei confronti di colei che durante l’infanzia e la prima adolescenza era stata sua educatrice, figura di riferimento, muteranno. Nel rivederla per la prima volta dopo anni fuori dal convento, l’autrice proverà prima una forte emozione, subito smorzata dal trovarsi davanti “una donna di mezza età, con indosso un vestito che le copriva appena le ginocchia, i capelli grigi tagliati male e l’aria spaurita” tanto che “dovetti guardarla negli occhi un momento per riconoscerla, e dopo mi sentii in vergogna per lei, e avrei voluto non essere lì”.Ma Elvezia, soprattutto dopo la morte della sorella Carolina, diverrà una presenza costante nella vita della Baracchi, in particolare dopo il ritorno della ormai anziana donna, incapace di badare a se stessa, all’Istituto Santa Maria, ospitata dalle suore con le quali un tempo aveva condiviso la Regola.L’autrice racconta con parole delicate e nello stesso tempo velate di sottile malinconia, il legame sempre più forte tra lei e “L’Elvezia”. Il pensiero che continuamente rivolge alla sua ex educatrice, il bisogno di andare a trovarla, portarla fuori a pranzo, trascorrere del tempo con lei. Quasi come se non potesse fare a meno della sua presenza, per un più o meno conscio bisogno di dimostrarle la propria riconoscenza, il proprio affetto, come una figlia farebbe con la vecchia madre. E sarà disposta anche a sopportare “i capricci” dell’anziana donna, un modo per farsi notare e quindi coccolare.Ma anche per la necessità, da parte dell’autrice, di recuperare il passato, la memoria, perché ciascuno di noi è ciòche ricorda e ciòche ha ricevuto dagli altri.Elvezia, col passare del tempo, avverte una incolmabile solitudine nella sua esistenza, percepisce l’indifferenza che spesso relega i vecchi nel vuoto dei pochi anni che li dividono dalla morte. Come se volesse recuperare il tempo, ora avvertito come perduto per sempre, trascorso per la maggior parte tra le mura di un convento e poi condividendo con la sorella anni di convivenza non sempre serena, ecco che la voglia di vivere la porterà ad assumere comportamenti inusuali per lei, così schiva e pudica nel manifestare i propri sentimenti. Si illuderà così di essere corteggiata da un anziano prete e dal giovane e affascinante medico che la cura. Il suo bisogno d’amore, la desolata, straziante consapevolezza di essere sola, di non avere “nessuno da baciare” la renderanno sempre più fragile e indifesa.Questo breve romanzo narra dunque il rapporto di una vita tra due donne, una molto più giovane dell’altra, che si consolida e cambia nel tempo: l’anziana Elvezia diventerà quasi totalmente dipendente da quella bambina, ormai donna, che aveva accudito in convento tanto anni prima. Ma al contempo Gabriella Baracchi non potrà più fare a meno della presenza di Elvezia, perché il ricordo di lei rappresenta per l’autrice il passato che, amaro o dolce che sia, è tutto ciòche al presente siamo: “Credevo che la morte dell’Elvezia sarebbe stata solo dolore. Invece fu nostalgia. Continuavo a pensarla”.