Pubblico una acuta e illuminate recensione della giornalista culturale, saggista e critico letterario Vera Fisogni sulla plaquette Numeri e Stelle. Ringrazio Vera Fisogni per la non comune l’intelligenza critica e la grande sensibilità.
Numeri
e stelle
Lettura di Primavera Fisogni
Stupisce sempre un po’ rilevare come la
matematica sia, nel nostro Paese, fanalino di coda nei saperi. Pochi dicono di
capirla, per questo la scienza dei numeri appare difficile da amare. Eppure non
c’è niente di più vicino al mistero della persona di una tale conoscenza, come
aveva intuito Pitagora, che fece del logos dei numeri – nel suo misterioso scritto
Logos Hièros – l’altra logica dell’esistenza.
Dove gli spazi, i silenzi, gli intervalli ritmici introducono alla vita in
forma ben più potente, e infera, dionisiaca, di quanto non faccia la
consequenzialità dei ragionamenti.
Leggere “Numeri e stelle” (Edizioni
L’Ulivo, Balerna), monografia lirica di Laura Garavaglia significa entrare nel
mondo dei numeri dalla porta della condizione umana. Non tanto perché l’autrice
evoca con sapienti tratti essenziali alcuni protagonisti della matematica, da
Pitagora a Fibonacci, da Georg Cantor ad Alan Turing, ma perché ciascuno di
questi ritratti è cifra in senso
propriamente algebrico e filosofico: ogni vita è, infatti, la risultante di
un’individuazione.
Spazio e tempo si incontrano in un
determinato punto. Siamo in presenza di un’intersezione che, oltre a
configurare una presenza nella storia, cioè un corpo personale con propria
individualità, si offre come nullpunkt
nei termini descritti da Edmund Husserl
(non a caso autore di una “Filosofia dell’aritmetica”, 1891, dedicata
Brentano) come punto zero sul mondo. Cos’è la cifra, se non questo, anche sul
piano etimologico? I poeti sanno intuire qualcosa dell’essere, come i filosofi
e i matematici (si pensi solo a Srinivasa
Aiyangar Ramanujan, un protagonista della raccolta).
Garavaglia, in poche manciate di versi,
consegna la verità dei numeri, in quanto cifre, ovvero enti vuoti di tutto e,
in ragione di ciò, aperti alla totalità. Esperienza di cui ebbe folgoranti
intuizioni il tedesco Bernhard Riemann (“E sulla retta magica tra zeri e
infiniti/ scrivevi l’armonia della natura”, in “La funzione zeta”), geniale
mente logica e fine spirito religioso. Due modi di essere all’apparenza
antitetici, che la poesia riesce a coniugare. C’è, infatti, un insieme
intersezione comune, tra numeri e stelle, tra cifre e condizione umana.
Garavaglia lo intuisce proprio a proposito di Riemann. Se la persona si pone
nel mondo come punto zero, davanti a sé non puòche leggere il mondo come insieme (come non pensare, sul piano
logico-filosofico, al Kollektive
Verbindung di Husserl?): di punti (“retta”), di suoni (“orchestra”), di
intervalli tonali (“musica”).
Appare molto interessante che
Garavaglia, pur collocandosi – come rileva Gilberto Isella nell’introduzione in
un contesto “post newtoniano” – assuma con sensibilità di poeta le interazioni
tra pensiero greco classico e prospettive contemporanee. In “Eureka” troviamo
Archimede pensare/affermare, attraverso la voce dell’autrice che: “Ogni curva puòessere retta”.
La contraddizione – così invisa al logos
razionale – appare dunque una
possibilità (“può”) dal punto di vista del logos dei numeri. Come non pensare
ad Einstein e alla teoria dello spazio-tempo curvo, frutto di intersezione,
entro uno spazio non lineare e bidimensionale? Ed è proprio alla luce di questo
ordine di riflessioni che si comprende come la scelta di parlare di numeri
attraverso cifre esistenziali, intrapresa dalla Garavaglia, restituisca in
poesia la tridimensionalità della geometria post-euclidea: esperimento
suggestivo, anche perché lo sguardo alle stelle è più che mai dovuto. Per
Gauss, a scuola “la lavagna era il cielo/ i numeri erano stelle luminose”. Nel
caso di Cantor “e la mente saliva/ ogni numero un passo,/ un gradino verso
l’infinito”.
Attenzione: non è la matematica in sé
stessa ad aprire all’universo. Come si evince dalla lettura dei versi di
“Numeri e stelle”, sono sempre gli uomini a orientare gli occhi al cielo, in
virtù di quello slancio prospettico che appartiene, come ek-stasis, al corpo in quanto nullpunkt.
La metafora dell’uscita da sé si dà a vedere in èvariste Galois per il quale,
anche dietro le sbarre “la mente era la scala di cristallo/ verso la teoria dei
gruppi”. La medesima patologia interiore viene attribuita a Srinivasa
Ramanujan, scombussolato dal “delirio dei numeri”. De-lirare è uscire dal solco
tracciato dall’aratro. “Bussola impazzita”, dunque, diviene la vita. Che
succede? Dov’è finita l’apparente armonia della matematica?
Quello che la vita restituisce è esattamente il
logos hièros di Pitagora, la cui
logica non è affatto quella di ordinare, perché consegna la verità dell’essere,
per sua natura precaria e mobile. Con buona pace della “divina proporzione” o
sezione aurea scoperta da Fibonacci e della “pulizia del numero” nella prospettiva
del cogito cartesiano, i numeri trovano un senso nel suono, cioè nella
successione ritmica che appartiene ai viventi (“Tutto il segreto della serie
armonica/ nell’urna colma d’acqua/ percossa dal martello” scrive l’autrice a
proposito di Pitagora, in “La musica delle sfere”, nei tre versi
indimenticabili della raccolta). Se così stanno le cose, il titolo del libro
“Numeri e stelle” esprime una congiunzione essenziale, non una formula paratattica
(come invece “Numeri e fiori sulla
lavagna grande del giardino”, in “David Hilbert e Hermann Minkowski”): i due
elementi sono fatti della stessa materia; non si tratta, perciò, di una
quantità che si estende all’infinito. Ma di un ritmo alla cui consonanza è
impossibile sottrarsi. Quando, nella “Genesi”, il Creatore contempla il creato,
fatto di uno-e-molti (ha-arez, terra
e ha-ssamaim, cieli), non si esprime
in termini di quantità, ma di qualità. Vede che quanto ha fatto è “bene” o
“buono” (il termine ebraico tov copre
entrambe le aree semantiche), cioè formula un giudizio di gusto, si esprime in
senso estetico.
Leggendo le poesie di Garavaglia si ha
la sensazione, anche non conoscendo gran che delle biografie dei personaggi
evocati, che le esistenze dei più siano state piuttosto travagliate, dense di
incomprensioni e affette dalla classica solitudine dei numeri primi, per citare
il titolo del romanzo d’esordio di Paolo Giordano. Una domanda si impone.
Perché mai i numeri, quando vengono disincarnati dall’esperienza sensibile (in
senso kantiano, di spazio e tempo), sono così rischiosi? Pur con differenti
caratteristiche – intuizione, logica, deduzione, scoperta – i matematici della
raccolta sono esseri geniali. Sul piano antropologico, è come se l’apprensione
della verità dei numeri producesse una scissione, ad un livello esistenziale:
la follia, l’inquietudine, la schizofrenia cartesiana di res cogitans/res extensa, lo sradicamento descritti in forma lirica
da Garavaglia lo testimoniano. La poesia sembra colmare questo solco. Lo fa
impiegando gli ingredienti misterici del numero, le sue componenti dionisiache:
il ritmo delle sillabe, il suono delle parole con la varietà degli effetti
acustici, il tono evocativo. Nel caso della raccolta edita da L’Ulivo, questo
effetto si vive alla massima potenza, come amplificato, attraverso l’eco
prodotto dalle traduzioni in inglese, rumeno e spagnolo. Provate a far leggere
da tre voci diverse, ma in simultanea, la medesima lirica e avrete qualcosa di
simile all’esperienza dello straniamento, la strada maestra dei riti orfici.
Non credo, però, che sia questa la
chiave di lettura più appropriata per esplorare il rapporto poesia/numeri:
certo, il ritmo è dinamismo temporale, cioè – aristotelicamente – il numero del
movimento secondo il prima e il dopo. La consonanza musicale tra lirica e
numeri, che anche Isella avvalora nella chiusa della sua introduzione, ha peròun
limite: non dà conto di quelle “stelle” che Garavaglia e i suoi personaggi
hanno variamente evocato. Probabilmente, per tentare una possibile risposta
occorre muovere dalla posizione prospettica della geometria esistenziale.
L’uomo, con il suo corpo è nullpunkt, un
punto zero, s’è detto. Lo sguardo al cielo è implicato in questa condizione.
Non c’è scampo, nemmeno quando si neghi la possibilità della trascendenza. La
poesia configura un altro punto di vista, comprensivo di vita e intuizione, di
carne e pensiero. La totalità ne è la cifra, come la puntualità prospettica lo
è per la persona e per la matematica. In un certo senso, il poeta puòstare
sulla terra, ma insieme riesce a dare uno sguardo dal cielo, se vuole, se può.
E così succede che, quando è il
matematico ad avere – come Gauss – l’universo nella mente, “la lavagna” è
“cielo” e “i numeri stelle luminose”. Ma, inevitabilmente è il logos
concettuale ad imporsi nell’espressione; qui nasce la scissione più dolorosa (e
anche la fatica della comprensione matematica).
Forse, come Garavaglia intuisce, il vero
logos dei numeri non è che poesia.