E’ stata una serata indimenticabile quella di sabato 4 settembre al Piccolo Museo della Poesia di Piacenza. In una splendida chiesa barocca, affrescata dal Bibbiena, sono conservati manoscritti, libri e riviste di poesia di grandi autori del ‘900, alcuni preziosi inediti. E poi opere d’arte contemporanea che impreziosiscono questo luogo unico nel suo genere.
Ho presentato il mio ultimo libro, La presenza viva delle cose – Living things, edito da Puntoacapo, traduzione in inglese di Annarita Tavani. Devo ringraziare i “padroni di casa” Massimo Silvotti, Sabrina De Canio e il team dei loro collaboratori, per la calorosa e impeccabile accoglienza, Mauro Ferrari, l’editore, per l’intensità e la profondità di lettura delle mie poesie.
Di seguito il testo della sua presentazione, una galleria di fotografie che vogliono testimoniare, anche se solo in parte, la preziosità del luogo e il video dell’incontro su FB.
Laura Garavaglia, La presenza viva delle cose, edizione bilingue italiano-inglese, traduzione di Annarita Tavani, Prefazione di Dante Maffia, pp. 56, € 12,00 ISBN 978-88-6679-232-1
Raramente mi è capitato di leggere una raccolta tanto forte – direi spietatamente forte – quanto La presenza viva delle cose, tradotto in inglese con un più sintetico ma splendido Living Things. Il libro, infatti, a partire dalla nota di Dante Maffia, è in edizione bilingue con testo a fronte a cura di Annarita Tavani, che ha fatto un lavoro di grandissima qualità. Onore al traduttore, come si tributa di rado, specie quando è capace di rendere il senso e la complessità dell’originale. Un esempio: “i campi arsi di ricordi” sono resi con “burnt-up fields teeming with memories”, a rendere la metafora italiana con un letterale ma altrettanto efficace “brulicanti di ricordi”.
Detto questo, mi soffermo un momento ancora sul titolo, che potrebbe far pensare a un libro astrattamente filosoficheggiante – e intendo, in senso negativo, quel pensare esplicito e rigidamente sistematico che uccide ogni velleità poetica. Leggendo i testi, al contrario, troviamo una poesia vivissima, imbevuta di realtà, di concretezza mai patetica, che nasce dall’osservare e vivere il mondo con occhi allertati e – perdonate l’apparente salto nel moralistico – onesti. Perché c’è, sabianamente, un modo onesto di fare poesia, che sfrutta la razionalità del pensiero senza vellicare le emozioni più superficiali con un patetismo fine a se stesso; che certo tocca i nostri sentimenti ma che da lì parta per illuminarci sulla vita; che parta dal confronto vero con la realtà, cioè gli eventi e le cose; e senza guardarsi l’ombelico, aggiungo, come fa troppa similpoesia minimalista, autobiografica, diaristica ecc.
Laura Garavaglia invece scrive del mondo e quindi del proprio riflettersi negli eventi, ed è capace di creare una poesia che ci fa rabbrividire di fronte alla violenza, alla morte delle cose e delle persone che abbiamo amato (in tutte le sfumature dell’amore) o che ai suoi occhi di poetessa assumono valore simbolico, come un bambino il cui mondo è stato appena distrutto (Yusuf, p. 20) o un attore morto in scena per disgrazia (A Raphael, p. 26). Perché, ribadisco, non è compito della poesia fermarsi alla superficie della nostra consapevolezza, ma al contrario essa deve attivare le nostre capacità di reazione più profonde, dove l’intellettuale razionale si coniuga con l’istinto, la passione e il sentimento: del resto, la poesia è “un sogno fatto alla presenza della ragione”, nella definizione di poesia che ripeto sempre (Tommaso Ceva, 1706). E se c’è una “utilità” della poesia, anzi, una sua ragion d’essere, forse oggi più che mai, è proprio questa capacità di attivare gli strati più profondi, più articolati e più nascosti di noi.
Il libro – tutto intessuto di dolore per la mancanza, la sparizione, l’uccisione – contiene due livelli che colloquiano tra loro in perfetta simmetria: alcuni testi fanno infatti riferimento a precise circostanze e persone, altri vi si innestano in modo più libero come riflessioni che non sono mai astratte digressioni meditative, ma fungono quasi da coro e commenti agli exempla (alle “occasioni”) altrove introdotti. Quindi, se da un lato abbiamo le poesie sui migranti messicani, su un povero bambino Yusuf che ha perso la casa, su chi uccide in nome di Dio, sul terrorismo più inumano e su altre vittime del male, dall’altro abbiamo splendide riflessioni poetiche su ciò che la furia del male ha disperso: “quello che ho perso . . . quello che è stato” (p. 48). È un viaggio nel mondo, come ci dice metaforicamente il primo testo:
Vacanza
Ma le onde hanno creste come i galli,
tu no.
Hai prenotato il volo per chissà dove
su Internet?
Hai chiuso il rubinetto del gas,
l’interruttore della luce?
Allora vai tranquillo,
porta con te il bagaglio a mano
della rassegnazione,
manipola la disperazione con cura.
Le cose, vive o morte sulla spiaggia,
prima o poi le ritrovi.
Il libro approda a una riflessione ulteriore, che è il suo punto più alto e che con grande originalità capovolge il nostro rapporto con i ricordi, con le cose vive che li rappresentano (“Le cose che sono e saranno / l’inganno del tempo e i ricordi / la vita che non sono più”, p. 44): la poetessa infatti scrive, negli ultimi due versi della raccolta: “Siamo solo ricordi all’orizzonte / nella presenza viva delle cose” (p. 50) e ci offre un nuovo modo di pensare. “La vita è un’ombra che cammina”, come afferma uno sconfitto MacBeth, e noi siamo solo impressioni in altre menti e saremo solo ricordi, mentre le cose e i ricordi stessi di noi e di tutto ciò che siamo stati resteranno dopo la fine della nostra presenza fisica, almeno un po’, nel (poco) bene e nel (tanto) male del mondo. E questa consapevolezza è il dono vivificante di un libro che, quasi paradossalmente, brulica di vita e di empatia verso la creaturalità degli uomini.
Mauro Ferrari
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